Il restyling,
si sa, è un’arte difficile. E la resistenza al cambiamento è forse una delle
forze più difficili da vincere. Tuttavia certi cambiamenti, certi restyling appunto, mi
lasciano alquanto perplessa. Così quando, prima una semplice voce di corridoio
poi notizia certa e confermata dal Women's Wear Daily, ho letto dei cambiamenti
di Hedi Slimane al marchio Yves Saint Laurent, non ho potuto fare a meno di
pormi un unico interrogativo: Perché ? (Ndp -note del puparuolo- la suddetta
domanda va posta ad alta voce, con un tono enfatico e drammatico, aprendo le
braccia e roteando con consumata abilità gli occhi al cielo)
La decisione
è questa: dalla prossima collezione autunno/inverno 2012-2013 il marchio nato
dal genio dell’enfant prodige algerino non si chiamerà più Yves Saint Laurent,
bensì Saint Laurent Paris, un omaggio secondo Slimane al nome originario del
pret-a-porter della maison, Saint Laurent Rive Gauche. Tuttavia il nome dell’azienda
resta lo stesso, così come il monogramma YSL inventato nel 1961. Da qui mi
ripongo un unico interrogativo: Perché? (Ndp idem come sopra).
Sì perchè davvero
non lo capisco. Che senso ha smontare un nome e un marchio che possiede un
heritage di tutto rispetto e, soprattutto, così intimamente legato al suo
fondatore, quell’Yves che a quanto pare infastidisce così tanto il nuovo
direttore creativo della maison? Davvero una Y mancante può fare la differenza?
Concordo di
sicuro con il tweet buttato lì da Paola Bottelli, un tentativo di enfatizzare l’aspetto
più parisienne del marchio per allettare la voglia degli asiatici di comprare
moda francese, tuttavia le recenti cronache ci insegnano che l’eredità del
passato è forse la risorsa più preziosa per un’azienda di moda. Due esempi su
tutti: Della Valle che rilancia il marchio Schiapparelli (e ci fa ruotare tutto
intorno una serie di mostre e celebrazioni DECISAMENTE CASUALI) e Marzotto and
friends con il marchio Vionnet, da start-up ad azienda di tutto rispetto nel
panorama del lusso e dell’eleganza. Due esempi di come l’imprenditoria possa
far leva su valori come la tradizione e l’eredità del passato e soprattutto
guadagnarci (sono anche esempi di come il puparuolo sappia scrivere benissimo
anche di fashion business, proprio qui).
I dati poi
sembrano confermare tale ipotesi, con un aumento del fatturato del 32,3%,
grazie soprattutto allo slancio nei nuovi mercati; tuttavia briciole in
confronto a Gucci e Bottega Veneta, luxury brand della Ppr, la conglomerata
francese cui fa parte il marchio Yves Saint Laurent, che insieme garantiscono
il 60% dei ricavi . Un confronto davvero stridente. Da qui probabilmente l’urgenza
di rinnovarsi e di incrementare l’appeal sui nuovi consumatori, poco inclini
alla storia della moda e molto influenzabili da una politica di marchio
rafforzata.
E in tutto
questo, c’è il placido benestare di Pierre Bergè, partner commerciale e nella
vita del compianto Yves, che sembra appoggiare ogni decisione del nuovo direttore
artistico, da iniziali indigeste, a presentazioni di collezioni blindatissime e
solo per buyer, alla scelta di spostare lo studio creativo da Parigi a Los Angeles,
dove vive lo stilista… magari Slimane soffre il clima bizzoso parigino, chi lo
sa.
Per me,
tuttavia, quella Y non è una iniziale trascurabile, rappresenta un mondo, uno
stile e una creatività che ha fatto la storia del costume occidentale e ha
fornito, a tutti coloro che sognano di fare moda, la cosa più importante: un
maestro.
Perché se c’è
qualcuno che ha mostrato come arte e moda possano essere realmente collegate,
questo è lui.
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Yves Saint Laurent autunno/inverno 1965-1966 |
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Yves Saint Laurent tuxedo 1966 |
Infine se ci siamo lasciate tentare dall’irrefrenabile voglia di un tè nel deserto, avvolte nella nostra sahariana d’ordinanza, dobbiamo prendercela con lui (e con le sue origini algerine, of course)
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Yves Saint Laurent sahariana 1969 |
Probabilmente sarà per questo che quella Y mancante a me non va proprio giù.